“Riflessioni” di Antonio Scandone sull’ultimo volume curato da don Carmine Canoci, già parroco della Chiesa madre di Salice
Ho letto con molto interesse l’ultimo volume che don Carmine Canoci (in foto), già parroco emerito di Salice Salentino, ha appena fatto stampare in proprio, da una tipografia che non ha ritenuto di rivelarsi in colophon. E l’ho letto con lo stesso interesse con cui ho seguito alcuni dei suoi pit-stop dell’anima apparsi recentemente, con periodicità settimanale, sul portale “Spazio Aperto Salento” diretto da Rosario Faggiano.
Anche se, per la verità, vi ho riscontrato una notevole diversità sia di stile che di genere letterario, perché, al contrario delle riflessioni talvolta molto profonde e sempre stimolanti sulle canoniche letture evangeliche, quest’ultimo lavoro si presenta come un conglomerato antologico. Il libro, infatti, si mostra con la stessa solida compattezza strutturale, e contemporaneamente la stessa multiforme variabilità delle presenze, che fanno pensare a quelle fantastiche formazioni calcaree che sorprendono e rapiscono ogni volta che si percorre, passeggiando, il tratto di litorale che da Santa Maria al Bagno conduce alle Quattro Colonne.
In effetti il susseguirsi ritmico dei 47 “nuovi giorni”, con la loro scansione uniforme delle proposte testuali, dà l’idea della compattezza lapidea, all’interno della quale, però, si rinvengono testimonianze di ogni tipo, di ogni origine e di ogni tendenza. Che vanno dalle inevitabili riflessioni sui testi patristici e scolastici, fino alle pastorali dei pontefici, alle evocazioni mistiche di Giovanni della Croce, o alla presenza degli autori contemporanei, del tutto estranei alle frequentazioni di un lettore laico. O di altri autori fin troppo conosciuti, come Carlo Sgorlon, o come il nostro simpatico “rottamatore”. Del quale, devo essere sincero, riconosco in questo suo intervento una mia prima, e probabilmente ultima, consentaneità. Sì, qui sono in tutto e per tutto d’accordo con lui.
Mi sarebbe piaciuto, però, che questo lavoro di don Carmine (e qui è la diversità di fondo rispetto ai suoi pit-stop) avesse offerto a noi lettori, non necessariamente sospinti da pulsioni spirituali, una sua dimensione più personale, la presenza dispiegata del suo pensiero, il frullo della sua intelligenza, l’acume della sua ricerca esistenziale. Al di là della vastità delle sue conoscenze culturali, delle sue frequentazioni bibliografiche, della varietà dei suoi interessi, che qui ha profuso a piene mani.
È ben vero che la sua presenza la si riscontra con sufficiente agilità nelle preghiere che chiudono ogni giornata, rubricate nella definizione di “O Signore…”, che non a caso mancano di ogni riferimento di attribuzione, a parte quella firmata da Papa Francesco. Ma che proprio per questo rivelano lo stile della personalità di don Canoci, mite e discreta, laboriosa senza ostentazioni, produttiva senza esibizioni.
E tuttavia ritengo che la parte più coinvolgente e più intrigante di questo libro, almeno per i miei gusti, sia rappresentata proprio da quelle “due parole” della sua Presentazione. Nella quale ci offre uno scorcio direi quasi del tutto inedito di un vissuto autentico e verace della sua formazione culturale e sacerdotale, nel corso della frequentazione seminariale. Sulla quale io personalmente, ma ritengo tanta parte dei suoi lettori, mi sono sentito coinvolto con una sorta di partecipazione umana e fraterna, costituita dalla realtà di un percorso formativo pressoché sconosciuto e misterioso. Che pure suscita interesse in quanto promuove inevitabili riflessioni sulla straordinaria variabilità che l’esistenza pone ad ogni individuo. Costituita dagli influssi della famiglia, dell’ambiente, dei valori che vi si respirano, dalle tendenze personali, dalle “vocazioni”. Ma anche dal caso, dalle circostanze, dai contatti interpersonali, dalle suggestioni emotive, dalla mutevolezza indecifrabile delle sterminate variabili che si presentano nel corso della formazione di ciascuno di noi. Che ci inducono a diventare, nel tempo, ciò che siamo.
Ricordo, a tal proposito, che una preziosa occasione di intravvedere in qualche modo la specificità e la minuziosità della vita seminariale mi fu offerta, tanti anni fa, da Marco Bellocchio, con il suo film Nel nome del padre. Che era costruito interamente sull’alternarsi cromatico di luci e di ombre. Molto metaforicamente evocative. E mi sarebbe piaciuto che anche il nostro “curatore” di questo libro si fosse soffermato più diffusamente su tali elementi autobiografici. Che, se gli cogliesse vaghezza di riprenderli in qualche altra occasione, diffusamente e organicamente, offrirebbe uno spaccato originale di vita vissuta. Credo inedito anche sul piano letterario. Oltre che su quello profondamente umano ed esistenziale.
Naturalmente tralascio, in questa sede, le innumerevoli riflessioni che mi hanno suscitato le multiformi proposte antologiche, delle quali, come è facile immaginare, la più corposa maggioranza è stata di segno critico. Perplessità e riserve incentrate soprattutto sulla insuperata contraddittorietà tra i dettami della fede, da un lato, e le stringenti necessità della ragione, dall’altro. Nel solco della secolare inquietudine di pensiero che da Giordano Bruno, passando da Spinoza e da Pascal, giunge fino a Kierkegaard, ed oltre. Per arrivare agli smarrimenti ed alle angustie dei giorni nostri.
All’interno di queste proposte di letture offerte da don Carmine ciò che mi ha intrigato di più, e mi ha fornito maggiori stimoli di riflessione, è stato il toccante e struggente brano di don Tonino Bello, Un Dio che sconcerta. Insieme alle riflessioni di papa Paolo VI sul Compendio della fede cattolica, sul quale avrei diversi rilievi ed obiezioni da opporre.
A tal proposito sarebbe davvero interessante e coinvolgente se si riuscisse a creare una qualche occasione di incontro e di confronto di opinioni su questo libro, per scambiarci a voce, de visu, i nostri rispettivi punti di vista. Sarebbero sicuramente momenti di crescita e di arricchimento. Almeno per me.
Infine, altre e stimolanti considerazioni sulla fede e sulla sua “cecità”, me l’ha offerte il bellissimo sonetto tronco di Trilussa, che molto opportunamente l’autore ha apposto come esergo significativo in quarta di copertina. Ma anche su questo testo occorrerebbe creare un confronto diretto di opinioni, per decodificarne il messaggio e ponderare la fermezza fideistica del grande poeta romanesco.
Senza ombre o incertezze rimane, invece, il messaggio che don Canoci ha voluto lanciare con questa sua iniziativa editoriale. Che trova rispondenza in quell’apparente luogo comune secondo cui un sacerdote non smette mai di essere tale. Anche questa, infatti, è una fruttuosa appendice della sua missione pastorale, pienamente rispondente al senso profondo della sua scelta di vita. Le 47 scansioni giornaliere delle proposte di lettura e di meditazione di questo libro, infatti, corrispondono esattamente agli anni di esercizio pastorale di don Canoci. Indicatore semantico a significare l’intimo intreccio di un vissuto personale che si è identificato totalmente col suo mandato sacerdotale.
Una sollecitazione intellettuale, e un impegno categorico, per dare libera attuazione a quei “feroci imperativi” di biblica memoria: “Andate e annunciate…”. O anche: “Ascoltino o non ascoltino, tu predica…”.
Antonio Scandone
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Copertina del libro