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Recensione - 02 Gen 2022

“Va pensiero… semplice e comune storia narrata in punta di piedi”, il nuovo libro di don Carmine Canoci

Antonio Scandone si sofferma sulle pagine del volume firmato dall’ex parroco delle Chiese “Santa Maria Assunta” e “San Giuseppe” di Salice Salentino


Spazio Aperto Salento

Chi si alza dalla poltrona dalla quale ha seguito il “film” propostoci da don Carmine Canoci con questo suo ultimo lavoro editoriale, dal titolo Va pensiero… (Self publishing, 2021, pp. 158), credo che lo faccia con il medesimo rammarico che mi ha colto a fine lettura. Il rammarico, cioè, di aver visionato un cortometraggio, mentre si aspettava una proiezione a tutto campo e di ampio respiro. Già, perché l’intento dichiarato dell’autore era quello di offrirci una panoramica antologica della sua vita, praticamente un’autobiografia retrospettiva del suo trascorso esistenziale fino ad oggi. Che si supponeva, dunque, denso di particolari, di dettagli, di episodi, di rappresentazioni d’ambiente, di dialoghi, di interazioni tra personaggi; alla maniera, giusto per citare qualche classico del genere, delle Ricordanze della mia vita, di Luigi Settembrini, o del Lessico famigliare, di Natalia Ginzburg.

Avremmo voluto, cioè, farci accompagnare da lui ragazzino nel suo ambiente familiare, tra i suoi fratelli e sorelle, oppure percorrere i corridoi probabilmente mesti ed ovattati del seminario di Molfetta, sederci accanto a lui per assistere ad una lezione, magari vivacizzata dalle macchiette scolastiche dell’Amarcord di Fellini, o prendere parte ad una delle tante riunioni del Consiglio Parrocchiale, sentirne gli argomenti, vagliarne gli umori, saggiarne le emozioni. E così via.

E invece, a lettura ultimata, ci rimane l’impressione di una scorsa troppo rapida e sommaria, di un tracciato che avrebbe meritato un impegno più pressante e dettagliato. Cosa che in realtà non è stata. E che, del resto, lo stesso autore aveva preannunciato fin dalle prime battute del suo discorso, dicendoci che si sarebbe trattato di un percorso compiuto “con la voglia di fare sintesi, compendiare e metterlo per iscritto”. E che si sarebbe trattato di “una storia semplice, leggera, acqua e sapone (…). Una storia raccontata volutamente con un linguaggio semplice e immediato”.

Assunto pienamente rispettato nella forma stilistica della sua scrittura, impostata fin dall’inizio sul piano dell’interlocuzione confidenziale con il lettore. I cui marcatori rivelatori sono dati anche dagli intercalari dialogici che frequentemente punteggiano la narrazione, come, ad es., i “Credetemi” – “Ma seguitemi” – “Convenite con me” – “Sentite un po’” – “Permettetemelo” – “Cosa pensare? Dite voi!”. Dunque un dialogo benevolo e affettuoso con il lettore.

Poi ti fermi un attimo a riflettere sul messaggio profondo delle sue parole, e ti accorgi che don Carmine, per noi che lo conosciamo, in quest’opera scarna e serrata ha davvero rappresentato in pieno tutto se stesso, il suo carattere quieto e silenzioso, la sua personalità schiva e riservata, la sua congenita insofferenza verso tutto ciò che potrebbe apparire come protagonistico, esibizionistico, o di personale ostentazione. Ad iniziare, ovviamente, dalle vicende più minute della sua vita privata. Che lui non aveva alcuna intenzione di enucleare, se non per sommi capi, per tappe evolutive essenziali, perché pressato dall’intento che più gli stava a cuore in questo libro, mettere cioè sul banco di prova il suo mandato di ministero sacerdotale, per valutarne la validità.

Una sorta di consuntivo a fine mandato, un processo autovalutativo su ciò che era stato e che si era concluso, un esame di coscienza per la verifica del compimento, pieno e definitivo, del proprio ruolo, della propria missione, di quella scelta di vita così radicale ed esclusiva e impegnativa davanti a Dio e davanti a gli uomini, che è il sacerdozio. Cosa abbastanza legittima e indiscutibile, dal momento che la precipua identità di un sacerdote si identifica compiutamente solo con ciò che ha comportato l’esercizio della sua missione.

E tuttavia da molti spunti di questo scritto si avverte che dall’analisi del compiuto di don Carmine emerge una sorta di latente e implicita afflizione per una sua presunta “orsite”, citata due volte in queste pagine. Cruccio artificioso e inconsistente per il nostro autore, in quanto ciò che lui avrebbe voluto avere, una ridente e avvenente estroversione, può assicurare sì il consenso, ma effimero e volatile, perché la vera approvazione e la partecipazione affettiva sono date solo dai contenuti e dalle opere. Come può facilmente desumersi dall’analisi della realtà, anche contemporanea, dove personalità pubbliche dal sorriso ermetico e dalla parola misurata, come Mattarella e Draghi, sono tra le più stimate e le più amate dagli italiani; mentre un religioso addirittura arcigno e spigoloso come padre Pio è venerato dall’intero mondo cattolico. Per cui mi sembra appropriato che ciascuno assecondi la propria natura e ne faccia tesoro. Come lo stesso autore ha saputo fare nel corso del suo esercizio ministeriale. E come del resto ci ammoniva il buon padre Dante:

“E se ’l mondo laggiù ponesse mente
al fondamento che Natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente” (Par., VIII).

Dunque con questo libro don Carmine ha voluto effettuare, innanzi tutto per se stesso, ma anche per tutti i suoi fedeli e tutti coloro che lo hanno conosciuto, una sorta di corale verifica della compiutezza del suo mandato, fare insieme ai lettori un bilancio del suo impegno pastorale, per constatarne la validità sociale e l’efficacia spirituale.

Il che comporta una vera e propria professione di inquietudine, di scrupolo esistenziale, che può scaturire soltanto dai precordi di una coscienza vigile e severa che, al compimento della propria missione, non si adagia sui facili conforti del personale appagamento, ma cerca il raffronto con il reale attraverso il vaglio dell’autocritica. A partire dal senso stesso da dare alla propria funzione, al ruolo svolto nel contesto dell’interazione sociale nel quale ha operato e della temperie valoriale nella quale si è trovato ad agire. In un tempo, come dice lui stesso, “quale il presente, in cui vivi in compagnia di una consapevole solitudine, di un disagio meravigliato nei confronti della storia contemporanea in tutte le sue sfaccettature”.

Come tanti della sua generazione, infatti, anche don Carmine si è trovato a svolgere la sua esistenza in tempi di profondi cambiamenti, di inediti sommovimenti sociali e ideologici, di radicali trasfigurazioni di valori. Ma al contrario di tanti di noi, egli, in qualità di sacerdote, si è trovato ad affrontare il cambiamento all’interno di una istituzione, quale la Chiesa, che per implicita necessità, per identità costitutiva si confermava tenacemente abbarbicata nella conservazione, nella secolare ritualità, in un devozionismo diventato fine a se stesso, che rischiava di sfociare in una vuota ripetitività ormai priva di senso e di valore spirituale.

Ancora oggi mi tornano alla mente le tante serate passate in chiesa da ragazzino, tra uno stuolo di coetanei, a seguire macchinalmente, fino alla spossatezza, le sterminate litanie lauretane recitate da don Nino, per giunta in latino: “Stella matutina, salus infirmorum, refugium peccatorum, consolatio afflictorum, vas insignae devotionis”, ecc. Ad ognuna delle quali attribuzioni dovevamo ripetere, meccanicamente, “ora pro nobis”, compunti e trepidanti, in attesa della licenza di irrompere nelle sale parrocchiali per la partita al calcio-balilla. O gli sfinimenti degli interminabili rosari recitati dai vicini di casa in crocchio attorno a un braciere, mentre io mi addormentavo sulle ginocchia di mia madre. Bene, questo tragitto, ed a maggior ragione, è toccato percorrerlo anche al piccolo Carmine. Che però, nella compostezza del suo contegno, interiormente già da allora ne percepiva la impalpabile vacuità.

Dubbi e perplessità che, pur nel rigore dell’impegno seminariale, si facevano strada tra quegli studenti, soprattutto quando vi penetrò, per vie traverse, la ventata del ’68, come lui stesso confessa: “Si cercava di provare, anche all’interno del seminario, l’adrenalina della trasgressione … della contestazione”. Erano i fermenti innovativi che nella Chiesa aveva apportato il Concilio Vaticano II.

Fermenti che trovarono immediata corrispondenza nella propensione e nel carattere del giovane Carmine, e che si fecero costume quando, da sacerdote, iniziò il suo percorso pastorale. Anzi, col passar del tempo, con la verifica sul campo dello stato dell’arte, egli stesso si confermava nella necessità e nella ineluttabilità di un interno e radicale rinnovamento, di un ammodernamento della vecchia e vuota ritualità, per ridare alla Chiesa e alla missione del sacerdote lo slancio, la linfa vitale del loro reale mandato nel sociale, il senso vero di una scelta di vita così radicale e impegnativa.

Lo ritroviamo nelle sue stesse parole, che ci risultano di una incisività e di una chiarezza ammirevoli:

“Che tristezza percepire, in varie celebrazioni e manifestazioni di fede, l’influenza di un’ombra grigia di formalismo fatta di neo devozionismo se non, addirittura, di neo paganesimo. L’ancien regime non muore mai!” (…) Cuori pesanti e occhi spenti entrano nelle nostre chiese, cuori annebbiati e occhi assonnati ne escono: gli zombi della fede! (…) “La fede infatti, a parer mio, non è una questione di cielo, ma di terra”.

Concezioni che già aveva anticipato fin dall’inizio della sua missione parrocchiale, come enunciava in una riflessione del 2008 per i giovani di A.C. di San Pancrazio. Nella quale affermava di non aver mai concepito la Chiesa come “un grande palazzo di nobili decaduti”, “un museo dove si conservano gelosamente le glorie del passato. Aria, quasi lugubre, di fasti antichi di cui più nessuno mena vanto”. “Ripetizione delle glorie del passato e recriminazioni sul presente”. “Una casa, che dovrebbe essere di tutti, ridotta a casa di privilegiati”. “Un’aria che avrà sempre bisogno di essere purificata e rinnovata. Ben vengano altri tsunami, anzi, ne son convinto, ne verranno. E porteranno un carico di gioia straordinario: gioia nel constatare che la Chiesa cammina e, gioia ancor più grande, sapere di farne parte”.

Preannuncio intuitivo, ma anche intimamente ragionato, dei cambiamenti eclatanti che sarebbero intervenuti a breve nel mondo ecclesiastico. Infatti pochi anni dopo, nel marzo 2013, venne lo tsunami di papa Bergoglio, il papa Francesco che già nella scelta del nome proclamava la svolta. E in effetti, nel corso di tutto il suo ministero sacerdotale, prima a San Pancrazio e poi a Salice, don Carmine ha inteso svolgere il suo ruolo proprio in questa dimensione, ed ha operato delle scelte innovative e talvolta audaci, in piena coerenza con le sue idee. Senza tentennamenti e senza incertezze, nella compostezza della sua moderazione e del suo autocontrollo. È lui stesso a riconoscerselo, pur nella rigorosa parsimonia della sua autostima:

“Nella mia azione pastorale ho sempre fatto in modo che la componente sociale e civile fosse coniugata adeguatamente con quella spirituale-religiosa”.

Con la delineazione netta e precisa del metodo di condotta adottato nel corso del suo ministero:

“Iniziative e testimonianze a volte anche audaci, capaci però di trasmettere l’dea del cristiano non grondante devoto bigottismo, protagonista solo tra le mura del tempio, ma anonimo, quasi per vocazione, tra le strade del vivere civile e sociale”.

Nel cui ultimo concetto sembra quasi di risentire i versi della splendida Pentecoste del Manzoni: Con quel tacer pudico // che accetto il don ti fa.

A quanti lo hanno conosciuto e frequentato don Carmine ha sempre manifestato un temperamento mite e pacato, ponderato e riflessivo. Ma non è stato certo un vaso di coccio costretto a viaggiare tra vasi di ferro, perché al momento opportuno ha saputo sfoderare tutta la sua fierezza, il suo orgoglio e la tenacia dei suoi principi. Come nell’episodio citato a pag. 81, probabilmente il più burrascoso e sconcertante di tutta la sua carriera, che lo portò addirittura alle soglie delle dimissioni da parroco della Chiesa Madre di Salice.

In quella circostanza don Carmine non solo seppe tenere testa all’arroganza ed alla sopraffazione, ma dimostrò di avere molta più personalità del suo superiore gerarchico. Il quale, al contrario, si era fatto talmente intimidire dalla sfrontatezza degli accusatori, da formulare un giudizio perentorio e definitivo senza avere prima sentito le ragioni della controparte. Arrivando a biasimare don Canoci pubblicamente, di fronte a tutto il suo Consiglio Parrocchiale. Senza considerare lo sgomento e lo smarrimento che in tal modo provocava non solo in tutti i presenti, ma, per l’eclatanza del caso, in tutta la comunità dei fedeli e in tutta la cittadinanza. Che però non si sono lasciati fuorviare, ed hanno riconosciuto nel corso degli anni l’intima natura del loro parroco don Carmine. Quale traspare con nettezza dal discorso della rappresentante del Consiglio Pastorale Coralba Rosato, pronunciato in occasione del saluto per la conclusione del suo ministero parrocchiale (settembre 2018):

“Con immensa gratitudine, vogliamo rendere lode al Signore, perché ci ha fatto dono di te, don Carmine”, rimarcandone la sua “presenza costante e discreta”, e riconoscendone “lo stile indicato dal Concilio Vaticano II”, che lo ha portato, nei 31 anni trascorsi nelle due parrocchie di Salice, a configurare “una chiesa sempre al passo coi i tempi che vive sul territorio”.

Un discorso che rappresenta la certificazione più eloquente della piena realizzazione del progetto pastorale di don Carmine. Sulla quale anche noi possiamo convenire, rafforzati dalla stima, il rispetto e la riconoscenza generale riscontrabili agevolmente tra i tanti fedeli e i laici delle sue parrocchie. E riconoscere che l’auto-esame che don Carmine ha voluto affrontare con questo libro è stato da lui agilmente superato, e da noi confermato a pieni voti.

Antonio Scandone
© Riproduzione riservata 

 

In foto: don Carmine Canoci

 

Copertina del libro