Una fonte inedita sul Tarantismo. Contributo di ricerca dello studioso salentino Gilberto Spagnolo
Prendo spunto dal titolo del testo “Sulle tracce della taranta”, pubblicato nel febbraio del 2000, per proporre e inserire nell’analisi bibliografica della vastissima letteratura sul tarantismo, una fonte molto interessante e sconosciuta su questo fenomeno. Rintracciata, in verità da tempo, è venuta prepotentemente “alla luce (per così dire) della mia memoria” dopo che il lockdown ha fatto diventare “iconica” la pizzica danzata dall’architetto materano (leccese d’adozione) Ester Annunziata, con il suo lungo vestito nero, in una “desolata” piazza Sant’Oronzo. Un grido, “un gesto liberatorio spontaneo” (come lei stessa lo ha definito) e come possono essere appunto quelli dell’antica danza terapeutica dei tarantati ma adottati per esorcizzare il virus (“una sorta di rito per scacciare la malattia”).
La fonte, dicevamo, sconosciuta agli studi e, soprattutto, all’elenco bibliografico di antichi testi a stampa, che attesta minuziosamente il morso velenoso, con i suoi effetti, della taranta e i riti terapeutici dei tarantati di Puglia, appartiene al chimico e medico francese Nicolas Lemery (Rouen 17 novembre 1645 – Parigi, 19 giugno 1715), autore di diversi libri e trattati che contribuirono alla diffusione della chimica facendola uscire dalla visione di Paracelso, ritenendo che essa dovesse essere una scienza dimostrabile e interpretando le reazioni chimiche con teorie corpuscolari.
Suo padre era procuratore del Parlamento di Normandia e morì quando Nicolas aveva undici anni. Intorno all’età di quindici anni iniziò a studiare come apprendista nella farmacia dello zio materno Pierre Duchemin a Rouen. Dopo 6 anni nel 1666 lasciò Rouen trasferendosi a Parigi per approfondire i suoi studi come apprendista di Christopher Glaser (1628-1670), farmacista alla corte di Luigi XIV. Introdottosi nei circoli intellettuali di Parigi, riuscì ad acquisire una farmacia che ebbe notevole successo e, nel contempo, continuò a tenere lezioni di chimica sia private che pubbliche. Ebbe da Madelaine Bellanger 6 figli e due di essi diventarono anch’essi chimici ma nel 1683 fu costretto a chiudere la farmacia per motivi d’intolleranza religiosa. La riaprì solo nel 1686 e nel 1699 fu ammesso all’Accademia delle Scienze francesi. Morì nel 1715 dopo un attacco di ictus.
La sua opera basilare fu il suo Cours de chymie (1675) che nel 1757 arrivò a 30 edizioni, con traduzioni in varie lingue tra le quali tedesco, spagnolo, inglese e italiano. Fu in sostanza un abile didatta e divulgatore. Altre sue opere particolarmente importanti furono Pharmacopèe universelle (1697), il monumentale Traitè dè l’Antimonine (1707) e il Traitè universel des drogues simples (1698) che è quella che ci interessa soprattutto in questo lavoro, nella seguente edizione tradotta in italiano e stampata nel 1721: DIZIONARIO/OVERO/TRATTATO UNIVERSALE/DELLE/DROGHE SEMPLICI/ In cui si ritrovano i loro differenti nomi, la loro origine, la loro scelta/ i principj, che hanno le loro qualità, la loro etimologia, e/ tutto ciò, che v’hà di particolare negli Animali,/ né vegetabili, e né Minerali/ Opera dipendente dalla FARMACOPEA UNIVERSALE/ SCRITTA IN FRANCESE DAL SIG./ NICCOLO’ LEMERY, /Dell’Accademia Reale delle Scienze Dottore in Medicina./ E tradotta in Italiano./ IN VENEZIA, MDCCXXI., Appresso Gio: Gabriel Hertz./ CON LICENZA DE’ SUPERIORI.
L’opera, con il testo in colonne, è in folio (mm 342×225). Pagine [12], 390, [14] di Indice, [2] bianche, [16] di Tavola delle Infermità + 25 carte di tavole xilografiche fuori testo con 16 figure di piante e animali ciascuna e con una grande vignetta calcografica al frontespizio “…Io ho intrapreso questo trattato, che ho creduto utilissimo in una Farmacopea Universale” – scrive Niccolò Lemery nella sua Prefazione.
E in effetti l’opera è una vera e propria enciclopedia di rimedi medici naturali, corredata, come già detto, da un Indice di nomi latini, da una Tavola delle infermità che possono essere curati o alleviati dai preparati proposti nel Dizionario nonché da 25 Tavole infine, ciascuna incisa con 16 differenti riproduzioni dei prodotti vegetali e animali da cui preparare i medicamenti. La “Tarantula” e il fenomeno ad essa collegato è narrato ampiamente alle pagine 354 e 355. La narrazione è molto bella e straordinaria, con particolari inediti e di estremo interesse scientifico legati, infine, al rito della guarigione del Tarantismo.
Gilberto Spagnolo
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Tarantula
Tarantula, in Italiano, Tarantola. È una spezie di Ragno grosso, la cui morsicatura è velenosa. Ve n’hà di molte spezie, le quali sono differenti per la loro grossezza, pel loro colore, e per la forza del loro veleno. Nascono in Taranto nella Calabria, nella Puglia, nella Sicilia, e in tutta l’Italia; ma quelle della Puglia sono le più velenose. Il lor colore è per l’ordinario di cenere, chiazzato di macchie bianche, nere, ò verdi, ò rosse. Il loro corpo è grosso come una ghianda di Quercia, e velluto; la testa è applicata immediatamente sullo stomaco, il quale dall’altra parte è unito al basso ventre con una spezie di nodo. Hanno otto piedi, ò gambe; ciascheduna delle quali è articolata da quattro giunture, e armata di due ugne forcute; i due piedi davanti sono più corti di quelli di dietro. Hanno otto occhi, quattro grandi, e quattro piccioli. Hanno nella bocca due piccoli denti assai aguzzi, e neri, co’ quali afferrano ciò che vogliono mangiare. Questi denti sono umettati da una bava, che fa il loro veleno; imperocchè nel medesimo tempo, che intaccano la carne mordendola, quella bava caricata d’un sale volatile marino s’infinua, ò si vibra nella piaga, e penetrando fino nelle vene, e nelle arterie vi cagiona delle alterazioni prodigiose.
Nel rimanente, le Tarantole ordiscono della tela come gli altri Ragni, e vi predano delle mosche, e delle farfalle, delle quali fanno il lor nodrimento. Abitano né buchi della terra, nelle fessure delle muraglie, né luoghi più caldi della Puglia. Sono così nemiche del freddo; che nel tempo del Verno se ne stanno nscoste sottoterra. Si battono, si uccidono, e si mangiano le une coll’altre, quando lor mancano gli alimenti. Fanno fino sessanta uova alla volta, e le tengono attaccate al loro petto, fin che siano aperte; indi custodiscono i lor figliuolini sotto il ventre, fino, che siano divenuti grandi abbastanza per camminare, e per operare.
Le punture della Tarantola non sono pericolose in tutti i luoghi, e in tutti i tempi. V’hà dè luoghi, e dè tempi, né quali pungono senza, che ne succeda verun accidente. Quelle della Puglia principalmente sono più da temersi pel veleno, che spargono né maggiori caldi della State. Si crede, che nel tempo, che si copulano, il loro veleno sia più pericoloso, e le loro punture più difficili a guarire.
Non si pigliano le Tarantole, come si vuole; i curiosi impiegano i Paesani per isnidarle. Questi fanno i buchi, né quali si ritirano quest’ infetti, e quando ne hanno scoperto alcuno imitano un susurro di mosca. La Tarantola esce allora prontamente per afferrare la preda, ma ella medesima è colta; imperocchè si prende con un’insidia, che l’è stata apparecchiata.
La puntura della Tarantola è vivissima, e cagiona un dolore simile a quello della pecchia; la carne, ch’è intorno alla parte punta si gonfia, e diventa livida, la persona è sorpresa alcune ore dopo da una profonda tristezza, da un tremore, da una gran difficoltà di respirare, da un dolore di testa, da un male di cuore, da un tramortimento generale; il polso s’indebolisce, la vista và mancando, si perde la cognizione; si dura fatica a parlare; si fugge la compagnia, e si cercano i luoghi più solitarj.
Questo veleno non si fa talvolta sentire, che circa un’anno dopo la morsicatura. Gli accidenti, che cagiona sono assai bizzarri; cominciano con salti violenti, che fa l’ammalato; continuano con una privazion d’appetito, con febbri ardenti, con dolori nelle giunture, con una itterizia univerle, con letarghi, con contorsioni, e allungamenti delle braccia, delle gambe, con moti convulsivi. Gli uni di quelli, che sono stati morsicati, ridono, altri piangono, altri gridano, e cantano; altri dormono, altri vegliano, altri vomitano, altri sudano, altri tremano, altri saltano, altri ballano, altri corrono sempre. Alcuni si dilettano tanto nel vedere certi colori, che cadono come in estasi, quando loro si presentano; altri non sono contenti, se non tengono, nelle mani un vaso di vetro pieno d’acqua, e allora schermiscono, come i Gladiatori, facendo un gran numero di gesti ridicoli; altri circondano il loro capo, le loro braccia, e la loro cintola di diverse Piante le più verdi; altri attaccano le coscie agli Alberi, e lasciano cadere sospeso il rimanente del loro corpo; altri dopo aver ben saltato, e ben ballato si mettono a sedere, si curvano, stringendo le loro ginocchia colle mani, sospirano, e si lamentano come persone afflitte; altri si gettano a terra, e scuotono le loro braccia, e le loro gambe colla medesima forza, come se fossero ammalati d’epilessia; altri si rivoltano nel fango. Finalmente fanno tutte le azioni degli stolti; ma hanno de’ buoni intervalli, né quali parlano bene; non fanno per l’ordinario male a veruno; hanno tutti un grand’ orrore d’una spada nuda.
I rimedj, che loro più giovano sono farli ballare molti giorni cinque, ò sei ore successivamente far loro udire delle sinfonie, che più loro piacciano; imperocchè tutte non convengono loro generalmente. Gli uni amano il suono del Violino; altri quello della Tromba, altri quello della piva. Questi divertimenti, e questi esercizj violenti fanno traspirare per li pori una parte del veleno, e scemano la causa morbifica; ma non bisogna fermarsi in questi foli rimedj. Stà bene il dare molte volte all’ammalato dell’estratto d’Elleboro, e della polvere d’Algaroth, affin di fare delle evacuazioni copiose di sopra, e di sotto; fargli prendere de’ sali volatili di vipera, di corno di cervo, di cranio umano, di succino.
Se l’ammalato non è soccorso co’ mezzi, de’ quali abbiamo parlato, è molto da temere, che la sua malattia diventi mortale. Si conosce, ch’egli è fuori di pericolo, e quasi guarito, quando non ha più voglia di ballare; ma succede a molti di questi ammalati, che in capo ad ogni anno della morsicatura, ritorna l’accesso, e bisogna allora far loro ricominciare la danza, e la sinfonia. L’ammalato, tosto, ch’è passato il suo accesso si risveglia come da un profondo sonno, e non si ricorda punto di ciò, ch’è passato, e ne meno della danza.
Il veleno della Tarantola è cagionato da un sal acido, e volatile, il quale essendosi esaltato nel cervello, ed attaccato alle membrane de’ suoi vasi, vi produce di quando, in quando, e secondo, che s’agita, e si fermenta più, ò meno, delle irritazioni, e diversi movimenti, ed alterazioni negli spiriti, e ne’ principi de’ nervi, donde nascono tutti gli accidenti nojosi, de’ quali hò parlato.
Il Sig. Geofroy dell’Accademia Reale delle scienze, pubblicò alcuni anni sono una dissertazione sulle Tarantole, la quale è stata inserita nella storia della medesima Accademia anno 1702. pag. 20. dell’Ediz. d’Amsterdam. Tarantula à Tarento, Taranto, perché quest’insetto non si trovava una volta, che verso la Città di Taranto.
Nicolas Lemery
Immagine in alto: R. Mead, Opera medica, Napoli 1752 (Tavola con disegno della Tarante fig. 5, allegata alla “Dissertatio”, coll. privata)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI