Rubrica - 20 Ott 2024

“All’ombra del bonsai”

Rubrica a cura di don Carmine Canoci


Spazio Aperto Salento

 

“Lo confesso. C’è qualcosa che temo più del dolore fisico, del responso degli esami clinici, delle terapie cui vengo sottoposto: le parole. E queste arrivano inesorabili. Sì, ogni giorno constato come le parole facciano male, siano sassi appuntiti che si conficcano nella carne e fanno urlare silenziosamente, o lasciano senza fiato. Quotidianamente vengo sottoposto al bombardamento delle parole, alla loro implacabile sassaiola. Parole di consolazione: false, stonate, vuote, irritanti. Parole di circostanza: ipocrite, fastidiose, ripetitive nella loro meccanicità, appartenenti a un copione fisso, a un rituale scontato. Parole di speranza, ma che sono la caricatura, la parodia della speranza, e finiscono per mortificarla, o addirittura spegnerla.  

Ma quelle che temo soprattutto sono le prediche sulla sofferenza. E purtroppo queste non mi vengono risparmiate da persone devote che fanno la loro apparizione puntuale nel momento sbagliato, non trovano mai il tono giusto, e il cui linguaggio si rivela semplicemente insopportabile (…), parlano fin dal primo momento.

Vengono solo per parlare, per istruirmi. Le loro chiacchiere devote sono tanto più inaccettabili in quanto scaturiscono da individui che, sovente, stanno bene in maniera spudorata, e quindi lasciano cadere i loro sermoni dall’alto del loro essere sani. Mi fanno pesare la loro superiorità, la superiorità di chi sta dall’altra parte, non è toccato dall’infermità, non è nemmeno sfiorato personalmente dalla miseria. E perciò la loro compassione mi umilia, mi avvilisce. Danno risposte a ripetizione, senza neppure aver cercato di capire le mie domande, i miei problemi. Concordo pienamente con le parole di Giobbe: «(…) Anch’io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto vi affogherei con parole…›› (Gb 16, 2-4). 

Come non indovinano le parole giuste, così non indovinano mai la posizione giusta. O troppo distanti, fino ad apparire estranei, fondamentalmente indifferenti. O troppo vicini, con la loro indiscrezione e invadenza, fino a soffocare. Non sanno mantenersi su quella soglia inviolabile che dice partecipazione ma anche rispetto, delicatezza, comunione silenziosa.

Talvolta mi vien voglia di buttar loro in faccia: «Tacete, rispettate il mio dolore, non maltrattate il mistero. Nessuno, tanto meno l’Interessato, vi ha autorizzati a farvi avvocati d’ufficio di Dio, a difendere la sua causa».

Pure a me appare intollerabile il silenzio di Dio. Ma, dopo aver ascoltato certi discorsi pii e untuosi, penso sia più facile sopportare il silenzio ostinato di Dio che le facili parole degli amici di Dio, le ciarle di coloro che presumono parlare a nome di Dio. L’accettazione del mistero, dello scandalo del male, risulta più pacificante di certe spiegazioni. Il mistero è luce crocifiggente, oscurità luminosa. Le chiacchiere aumentano la confusione. Pretendono spazzar via i nuvoloni neri del dubbio, degli interrogativi, delle questioni laceranti, e finiscono, con i loro gelidi moralismi e schematismi, per dissipare la speranza”.

 Alessandro Pronzato
da Via Crucis del malato, Editore Gribaudi, 1995

 

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Tanto tempo fa ho iniziato a conoscere una Persona che di fronte al dolore altrui, o piangeva o faceva miracoli. Se poi interveniva, riusciva a lenire il dolore non, beninteso, a eliminarlo. “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. Tale Persona (che ancora non ho finito di conoscere appieno), non diceva le cose per un buonismo da evidenziare (il suo) né da trasmettere (a chi soffre).  

Voleva far capire a tutti una verità: chi soffre è capace di fare il bene non solo mediante l’offerta del suo dolore ma proprio anche attraverso il suo bisogno di cura e di sostegno.

Infatti il malato proprio con la sua debolezza e sofferenza offre agli altri la possibilità di crescere in umanità prendendosi cura di lui. Come? Maturando nella reciprocità. Occorre, cioè, aprirsi non solo per far del bene a chi soffre ma ancor più per accogliere il bene che viene da chi soffre…

Traduco: l’attenzione al malato, (libera da qualsiasi forma di pietismo e bigottismo tipico di tanti sedicenti cristiani, (v. testo citato), è fatta invece di ascolto, di servizio, di silenzio, di presenza amica. Infatti è proprio dell’amicizia farsi vicino, essere capaci di mettersi nei panni dell’amico captando pensieri e sentimenti riuscendo così a condividere il suo dolore e offrirgli sostegno e conforto.

Ciò è solo un poco che diventa molto a proprio vantaggio.

Spesso ascoltiamo o leggiamo dichiarazioni di chi, vivendo, a volte per libera e volontaria scelta, vicino a casi di disabilità estrema, afferma che è più quello che ricevono che non quello che danno.

Chi di noi non ha avvertito una profonda gioia, tutta sua, nel suo profondo, dopo aver compiuto una disinteressata opera di bene?

Ma, attenzione! Addirittura nel vangelo si nota con evidenza il contrasto tra l’atteggiamento di Gesù e quello dei discepoli nella sua solitaria pre agonia nell’orto tra gli ulivi. Per tre volte Gesù torna da loro in cerca di conforto e ogni volta li trova addormentati. Quelli non sanno condividere la sua agonia, non sono in grado di entrare nella sua passione, nella sua lotta orante.

Onde evitare tale rischio, faremmo bene tutti: credenti, non credenti, agnostici, atei, diversamente religiosi, a maturare, nei confronti di chi soffre, una solidarietà che sa davvero com-patire e prendersi cura.

don carmine canoci