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Cultura - 27 Feb 2021

Dante: una vita spericolata

Un contributo firmato da Pantaleo Palmieri, intellettuale di origini salentine, autore di numerose opere di filologia e critica letteraria


Spazio Aperto Salento

Dal saggio-articolo, offerto nella ricorrenza dei 700 anni dalla morte di Dante, emergono interessanti e rari aspetti della vita e dell’opera del Sommo poeta. In esso, inoltre, spiccano la competenza e la padronanza della produzione dantesca da incastonare nei contributi per le celebrazioni ospitate da Spazio Aperto Salento.

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Se l’Ottocento è stato il secolo di Dante-Padre della lingua e Padre della Patria (più precisamente Dante ha fondato la lingua italiana letteraria e ha promosso il volgare toscano a lingua nazionale, facendone il nucleo della nostra identità), e il Novecento è il secolo dei grandi commenti (Sapegno, Momigliano, Pasquini-Quaglio, Bosco-Reggio, Chiavacci Leonardi ecc.) e delle imponenti edizioni critiche (la raccolta in un solo volume delle Opere per il VI centenario della nascita coordinata da Barbi, le Rime di Contini, la Comedìa secondo l’antica vulgata di Petrocchi, ecc.), il nostro secolo si caratterizza, in ambito accademico, per il ritorno dei dubbi sull’attribuzione a Dante de Il Fiore, del Detto d’Amore, dell’Epistola a Cangrande, della Lettera di frate Ilario, della Questio de aqua et terra (uno dei protagonisti più attivi è Alberto Casadei), e, viceversa, per la sicura autenticità delle Egloghe, e, in generale, per un più accurato riesame dei documenti storici, utile per riscrivere la vita di Dante (si pensi soprattutto al lavoro di Giuseppe Indizio), o per ridisegnare il suo profilo di uomo, di intellettuale, di politico.

Insomma un Dante oltre il mito foscoliano del ghibellin fuggiasco e, soprattutto, oltre il mito romantico dell’exul inmeritus. Un Dante che segue virtute e canoscenza [ma il compianto Pasquini non perdonava a Petrocchi quell’a: Dante scrive sempre cononoscenza], pronto ad esaltare i suoi amici e quanti lo hanno aiutato, ma spietato nel castigare i suoi nemici e quanti gli hanno nociuto. Un Dante aperto sì all’utopia e alla profezia, ma anche all’azzardo. E un azzardo gigantesco non è il viaggio nell’oltretomba (narrazioni analoghe erano frequenti nel Medioevo), bensì il fatto che Dante nel suo viaggio – un viaggio che il lettore deve accettare come reale – non incontra anonimi dannati o penitenti o beati, exempla rispettivamente di colpe gravi, di peccati perdonabili, di grandi meriti, ma singole persone, ciascuna con la sua storia, e che a giudicarli non sia il Re dell’universo, ma Dante-giudice. Tutte storie che Dante racconta in estrema sintesi, e in ciò sta la straordinaria grandezza del poeta.

Della vita di Dante sappiamo molto poco. Eppure Dante ha scritto di tutto e di tutti, ma soprattutto ha scritto di se stesso, sebbene all’epoca la cosa fosse considerata sconveniente. Poco o nulla ha raccontato della sua famiglia; non un cenno al padre o alla moglie, ma questa era all’epoca la regola. Ha scritto, sotto specie di mitografia, del suo primo grande amore, ovvero dell’amore assoluto, quello per Beatrice (la Vita nova); non sempre ci si pensa, ma senza la Vita nova non ci sarebbe stata la Commedia. E ha scritto di altre vicende amorose, la Donna Gentile “giovane e bella molto”, la donna-Petra (cui lo lega una passione ossessiva e sensuale), la Pargoletta, la donna sbandeggiata dalla corte di Amore, che Boccaccio definisce “alpigiana gozzuta”. Ha scritto del suo cursus studiorum alla prestigiosa scuola laica di Brunetto Latini (un apprendistato per la carriera politica) e «nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti» (Convivio, II xii 7): con ogni probabilità, da semplice uditore presso le scholae teologiche dei francescani di Santa Maria Novella, dei domenicani di Santa Croce, degli agostiniani di Santo Spirito (nella Firenze di Dante non c’era uno studium, ossia un’università; istituito nel 1321 ebbe vita breve e irregolare). Ha scritto dei suoi stessi scritti, commentandoli e interpretandoli, di questioni di lingua e di stile (De vulgari eloquentia), dei suoi orientamenti politici (Monarchia e Epistole).

Soprattutto ha scritto del suo esilio. È nella memoria di tutti la profezia post eventum del trisavolo Cacciaguida nel XVII del Paradiso: «Qual si partio Ipolito d’Atene  / per la spietata e perfida noverca, / tal di Fiorenza partir ti convene […] /  Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l’arco de lo essilio pria saetta. // Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale», ecc.

Non tutti forse hanno presente quel che Dante scrive nell’incipit del Convivio, il trattato rimasto incompiuto, nei primissimi anni dell’esilio, una delle pagine più vibranti fra quelle dedicate alla sua condizione di esule:

Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato -, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.

È, questa, una stupenda pagina di prosa in volgare, all’interno di un trattato scientifico-filosofico che, proprio per essere in volgare, non poteva che sorprendere, se non addirittura scandalizzare.

Nella Commedia, il suo capolavoro, Dante è onnipresente. Come personaggio, il Dante che si è smarrito nella selva e che deve fare un viaggio ultraterreno per salvarsi; il Dante che dialoga con le anime, ora commuovendosi, ora sdegnandosi, ora non tenendo fede a una promessa fatta: «E cortesia fu lui [Frate Alberigo] esser villano» (Inf. XXXIII, 150), e talvolta persino venendo alle mani con l’interlocutore, per es. con Bocca degli Abati, il traditore di Montaperti: «Allor lo presi per la cuticagna / e dissi: “El converrà che tu ti nomi,  / o che capel qui sù non ti rimagna”./ Ond’ elli a me: “Perché tu mi dischiomi, / né ti dirò ch’io sia, né mostrerolti,  / se mille fiate in sul capo mi tomi”» (Inf. XXXII, 97-102). Come narratore che descrive le pene eterne dell’inferno, il percorso di purificazione delle anime del purgatorio, e la luminosa eterna beatitudine del paradiso. Come autore che deve affrontare le difficoltà di trovare le parole giuste e le immagini più appropriate per descrivere un’esperienza così straordinaria. Soprattutto la difficoltà di descrivere il mondo paradisiaco: una realtà metafisica che Dante rappresenta con immagini tratte dalla realtà terrena: per es., la fede è la moneta che Dante ha nella sua borsa; il nono cielo detto Cristallino per la sua trasparenza è «lo real manto di tutti i volumi / del mondo». Come persona che smentisce le accuse che gli vengono rivolte, per es. quella di aver rotto un battezzatoio; «Non mi parean [i buchi in cui sono puniti i simoniaci] men ampi né maggiori / che que’ che son nel mio bel San Giovanni, / fatti per loco dei battezzatori; // l’un dei quali ancor non è molt’ anni, / rupp’ io per un che dentro v’annegava: / e questo sia suggel ch’gn’ omo sganni//» (Inf. XIX, 16-21), o che sogna, una volta portato a termine il poema, di essere richiamato a Firenze per la grandezza della sua opera: «Se mai continga che ’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per più anni macro, // vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’io dormi’ agnello, / nimico ai lupi che li danno guerra», ecc.

Insomma, come scrive Marco Santagata, Dante è un arcipersonaggio. Non è però un megalomane, un ambizioso, un narcisista: il suo viaggio nell’oltretomba è un dono della Grazia divina, ma non è un dono personale. Dante, l’esule condannato al rogo, è un nuovo Enea, un nuovo Paolo, un nuovo Mosè che deve liberare l’umanità dal deserto del peccato e guidarla alla terra promessa della beatitudine.

Si potrebbe affermare che Dante abbia voluto lasciarci la sua autobiografia (anche l’Ulisse dell’Odissea è narratore di se stesso alla corte di Alcinoo). Un’autobiografia ideale, fondata su un background culturale delineato dai grandi classici greco-latini e dalle Sacre Scritture, gli archetipi di ogni impresa letteraria. Eppure di Dante non abbiamo né una sua firma, né una sua riga autografa; non conosciamo neppure la data esatta della sua nascita, salvo che è nato sotto il segno dei gemelli: «O gloriose stelle, o lume pregno / di gran virtù, dal quale io riconosco / tutto, qual che si sia, il mio ingegno» (Paradiso XXII, 112-14); ed è per questo che la scelta del Dantedì è caduta su una data immaginaria, quella del giorno in cui Dante comincia il suo viaggio ultraterreno. Fortunatamente, conosciamo con certezza la sua data di morte, nella notte fra il 13 e il 14 settembre del 1321. E sono rari i documenti in cui compare il suo nome.

La sua fu, dopo il 1302, una vita difficile, nomade, da una città all’altra, da una corte all’altra. Sicuro della sua forza poetica, arrivato appena al IV canto della Commedia già si incorona poeta sia pure come sesto tra i più grandi, Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e Virgilio che gli fa da guida. Si noti che poeta indicava solo i poeti latini, quelli in volgare erano rimatori; sicché Dante si colloca in un gruppo la cui autorità, come dice Curtius, non conosce tempo. Si fece giudice e mandò all’inferno sovrani e papi, amici e nemici, guelfi e ghibellini.

Usò la licenza poetica rasentando l’eterodossia: non l’eresia, ma neppure l’adesione piena all’ortodossia. Pose in paradiso figure controverse, come Sigieri di Brabante; o come Traiano e Rifeo troiano, non battezzati, che splendono tra gli spiriti giusti nell’occhio dell’aquila. Mise in inferno persone ancora in vita (il forlivese frate gaudente Alberigo, «quel de la frutta del mal orto», Inf. XXXIII, 119, e il nobile genovese Branca Doria) che precipitano nella Tolomea «tosto che l’anima trade» (Inf. XXXIII,129), mentre i loro corpi in terra sono occupati da un diavolo.

Seppe essere, o mostrarsi, equanime: consegnò alla bolgia dei fraudolenti Guido da Montefeltro, che pure si era pentito ed era entrato nell’ordine dei frati minori; ma mise in purgatorio l’anima di suo figlio Bonconte, che tutti credono morto senza aver avuto il tempo di pentirsi, salvato per una lagrimetta (Pg. V, 1059).

Spericolata fu anche la sorte delle sue opere: alcune rimasero inedite per molto tempo; molte gli furono falsamente attribuite; di altre fu messa in dubbio l’autenticità; la Monarchia fu considerata eretica e fu bruciata in pubblico. La Commedia è stata interpretata nei modi più svariati. Godette di grande fortuna fino al Rinascimento; fu poi quasi ignorata nei secoli della soppressione straniera; col Risorgimento fu il volano dell’Indipendenza e dell’Unità nazionale.   

Pantaleo Palmieri

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