Il 12 dicembre 2019 si è tenuto a Lecce un Convegno di Studi dal titolo Giulio Cesare Vanini dal Salento all’Europa, promosso per celebrare il IV centenario della morte del filosofo salentino. Gli atti dell’evento sono stati stampati successivamente nel numero 29 del 2020 dell’Idomeneo, rivista dell’Università del Salento. In quell’occasione ebbi modo di tracciare un percorso iconografico del Vanini, giungendo alla conclusione che a livello fisiognomico non potremo mai avere le reali e sicure sembianze di Giulio Cesare Vanini, ma soltanto la somiglianza (pp. 197-215)
Tra le relazioni in programma c’era anche quella di Paolo Vincenti su Giulio Cesare Vanini nel percorso iconografico di Donato Minonni, comprendendo, in ordine di tempo, anche l’ultima opera dello scultore salentino, che riproduceva il Vanini, chiarendo in quella circostanza che Minonni si «allontana definitivamente dal cliché tramandatoci nella prima fase e mostra (…) aderenza alla figura culturale e fisica», derivato da una scrupolosa documentazione dell’artista sulle notizie biografiche del filosofo che aveva frequentato ambienti eleganti e cortigiani di Parigi ed incontrato personaggi non certo secondari del tempo (p. 224).
Il 9 febbraio 2022 è stato inaugurato il Busto di Giulio Cesare Vanini nell’edificio 5 del complesso Studium 2000 dell’Università del Salento opera di Donato Minonni, offerta dallo scultore all’Ateneo salentino.
La scultura di Minonni, è bene fugare subito ogni dubbio, non è un ritratto nel senso tradizionale del termine, in quanto nel ritratto c’è sempre una tendenza a riprodurre i lineamenti fisici reali di una persona, divenendo mezzo e strumento di un “ricordo silenzioso”, che nel tempo acquista tutte le caratteristiche di un’operazione commemorativa e memoriale. La memoria, del resto, è la vittoria umana sul tempo.
Per comprendere il valore della scultura di Donato Minonni occorre fare alcune precisazioni ed osservazioni stabilendo i precedenti iconografici relativi a Vanini e l’originalità e la modernità della scultura di Minonni.
Dall’analisi dei precedenti iconografici di Giulio Cesare Vanini emerge l’inammissibilità della rassomiglianza fisica, in quanto non possediamo un ritratto del filosofo di quando era in vita.
Una narrazione storica dell’esecuzione della sua condanna a morte è Giulio Cesare Vanini al patibolo, un olio su tela dipinto nel 1935 da Rada Efimovna Chusid e conservato nel Museo di Storia della Religione e dell’Ateismo di Leningrado, dal 1991 nuovamente San Pietroburgo.
Notizie d’archivio databili al 1611 ci informano che Vanini entra nell’Ordine dei Carmelitani nel 1603 e prende il nome di fra’ Gabriele.
Nel 1613, chiede la liberazione dai voti dell’ordine di appartenenza, ma non sarà mai ridotto a sacerdote secolare, come invece gli era stato prospettato.
Non c’è, al momento, nessun ritratto di Vanini che ne ricostruisca l’immagine che evidenzia lo stato di religioso come un aspetto della sua vita, anche se indirizzò le sue scelte verso altre mete.
Una delle prime immagini di Vanini riconosciute ed inserite nelle pubblicazioni di settore è quella riprodotta nel frontespizio dell’opera di Johann Müller (1598- 1672), Atheismus devictus, edita per la prima volta nel 1685 ad Hamburg dall’editore Nauman e Wolff.
J. Müller, Atheismus Devictus, Naumann e Wolff, Hamburg, 1672 (part. frontespizio)
Nel frontespizio del testo è raffigurato, al centro, ai piedi di Gesù Cristo in gloria, un collegio di filosofi, identificabili dalle didascalie da sinistra verso destra con: Celso, il filosofo greco anticristiano, vissuto nel II secolo, il quale scrisse l’opera Vera dottrina contro la religione cristiana; Porfirio (III-IV secolo), il quale, nel tentativo di rivalutare il paganesimo, scrisse un’opera contro i cristiani; Giuliano, IV secolo, naturalmente l’Apostata, avverso al cristianesimo; Luciano, ovviamente di Samosata, amico di Celso, il quale aveva in antipatia la religione popolare; l’ultimo personaggio ritratto sembrerebbe, dalla didascalia, l’effigie di Vanini.
Se riteniamo necessari all’economia compositiva i due anonimi personaggi su cui fisicamente, ma forse anche metaforicamente, Gesù Cristo poggia i piedi, seduto su un ammasso di nuvole, impugnando il vessillo della resurrezione, questo sarebbe il primo ritratto del filosofo, a cinquantatré anni dalla morte.
La prima vera e propria incisione del presunto ritratto del Vanini si fa risalire a Johann Adam Delsenbach (1687-1765) ed è stata pubblicata nel 1714; ma l’incisione è attribuita anche all’incisore tedesco Georg Mentzel (1677-1743).
Pendent di quest’opera è l’incisione edita nel 1728 da Friedrich Roth Scholtz (1687-1736), libraio e stampatore tedesco.
Questi «ritratti» di Vanini, realizzati attingendo a piene mani a immagini di repertorio, saranno le uniche fonti iconografiche per tutto il Settecento.
Nei primi anni dell’Ottocento si assiste ad uno stravolgimento delle sembianze e dei tratti somatici del filosofo, con l’oleografica litografia del 1817 di Raffaello Morghen (1758-1833), in cui, compromessa l’identità a favore della somiglianza, si affida più all’individuazione e alla resa del carattere del personaggio da raffigurare piuttosto che alle reali sembianze, oltre tutto, sconosciute.
L’incisione del Morghen diventerà il prototipo di uno schema iconografico che troverà analoghe soluzioni in figure simboliche destinate a rappresentare un equilibrio tra l’intelletto ed il sentimento, tendenti ad esprimere una carica interiore derivata da un’armonia tra il pensiero e l’azione: dall’incisione del 1838 di Étienne Huyot (1807/8-1885), pubblicata nel contributo sul filosofo in lingua francese da M. Laval sino a quelle novecentesche.
Un rapido raffronto con ritratti di patrioti risorgimentali conferma la scelta iconografica del Morghen, in cui, se è evidente un impianto dinamico con un recupero di una classicità accademica, è oltremodo dichiarata l’adesione alla vena romantica, emergente anche dalla velata tristezza dello sguardo del personaggio.
Facendo una veloce comparazione con noti ritratti ottocenteschi, ci si renderà conto che la descrizione plastica del volto ha prevalso sui tratti individuali, perché, anche in questo caso, siamo in presenza di un ritratto tipologico in cui tutto è affidato a schemi comprensibili a tutti.
Ad esempio per Goffredo Mameli, dalla fisionomia dell’incisione ad acquaforte di Enrico Parmiani (notizie 1837-post 1860), databile tra il 1840 e il 1860, si passa ai ritratti del patriota genovese realizzati da Girolamo Induno (1815-1878). Occorre considerare che lo spostamento dalla memoria individuale alla memoria collettiva spesso avviene attraverso l’immagine e la sua collocazione.
Nel 1868 è affidato ad Antonio Bortone (1844-1938) il compito di scolpire un busto di Vanini per la Biblioteca Provinciale di Lecce.
Dieci anni dopo il busto del Bortone, nel 1878 la litografia Petruzzelli pubblicata in una monografia su Vanini di Raffaele Palumbo ne riproduce le sembianze, attingendo, anch’essa, a piene a mani all’incisione del Morghen.
Nel 1883 Cosimo De Giorgi (1842-1922) è nominato direttore del «Giardino pubblico» di Lecce. La «Villa Comunale», come era comunemente denominata e conosciuta, nello stesso anno è intitolata all’eroe nazionale Giuseppe Garibaldi, deceduto l’anno prima. De Giorgi promuove una serie di interventi che arricchiscono la struttura e tra il 1886 ed il 1889 sostiene la vecchia idea di realizzare busti di illustri salentini, tra cui quello di Giulio Cesare Vanini, firmato e datato «Eugenio Maccagnani 1888» . La fonte iconografica del Maccagnani (1852-1930), ancora una volta, è l’incisione del Morghen.
A partire dalla metà degli anni Ottanta del sec. XIX, nel Giardino Pubblico di Lecce trovano ubicazione monumenti e busti di personaggi della storia nazionale, ma soprattutto salentina. L’idea era quella di realizzare quasi un «Museo a cielo aperto» con i busti in marmo dei personaggi legati alla storia del Salento, collocati su pilastri che, nell’impostazione, rievocano le erme dell’antica Grecia: la storia incontra la natura; e l’uomo, attore della storia, partecipa del sentimento della natura.
Tra il 1889 e il 1891 è presumibilmente databile il progetto di un monumento a Giulio Cesare Vanini di Antonio Bortone, che non sarà mai realizzato.
Anche Vanini è un eroe: fa parte non soltanto della storia del Salento, ma soprattutto è parte integrante di una storia che ha il continuo bisogno di essere costruita su un sapere fondato sulla ricerca della verità, accanto a quella storia «manipolata» dai poteri, tanto per scomodare Le Goff .
In questa ottica occorre leggere il medaglione di Vanini raffigurato di profilo, con l’integrazione della variante del volto di Martin Lutero in basso a sinistra, collocato sul basamento in granito insieme agli altri medaglioni in bronzo raffiguranti ritratti di liberi pensatori, nel Monumento di Giordano Bruno, realizzato nel 1889 da Ettore Ferrari (1845-1929) e fuso dalla fonderia Crescenzi di Roma, innalzato in Campo dei Fiori a Roma, nel luogo dove il filosofo affrontò il rogo.
Dalla mostra su Giulio Cesare Vanini, organizzata nel gennaio 1969 a Wroclaw in occasione delle celebrazioni dei 350 anni dalla sua tragica morte, sono passati diversi anni, ma lo stato delle conoscenze non è molto mutato.
D. Minonni, Busto di Giulio Cesare Vanini, bronzo e resina, 2022, (120x95x80)
Minonni nel realizzare questa sua recente opera doveva, in primo luogo, non essere ripetitivo e perciò doveva superare la diffusa velata malinconia presente nella tradizione iconografica vaniniana.
Nel contempo, doveva conferire al personaggio l’espressione di certezza di un’aspirazione all’eternità concentrandosi soprattutto nella resa del volto. Per questo, utilizza un repertorio iconografico che poteva dare sicure garanzie; quello fedele ad una impostazione classica in cui vita morale e vita intellettuale coincidono.
I lineamenti del volto volitivi esprimono, quindi, la tensione di un giovane che da poco ha superato i trent’anni e che, con tutte le sue forze, è alla ricerca della verità. Lo sguardo intenso è quello di chi trae ispirazione per giungere alla conoscenza nella sua forma più ampia e più intensa. La fronte spaziosa, appena corrugata, contribuisce ad assicurare la profondità del silenzio e l’interiorità della contemplazione che si concretizzano nell’atto di impugnare il calamo per scrivere. Proprio questo impianto iconografico rinvia a note raffigurazioni degli Evangelisti o meglio a quelle dei Dottori della Chiesa, che scrivono con una bacchetta di canna appuntita o spesso con una penna d’oca o di altri volatili.
Minonni, inoltre, è consapevole che, come suggeriva Giulio Carlo Argan, «l’immagine, in sé, non è né buona né cattiva, ma ci si può servire delle immagini per un fine buono o perverso» (G. C. Argan, Immagine e persuasione, Milano 1986, p. 39). Per questo il suo Vanini doveva comunicare nello spettatore anche la sua scelta di vita: alla crisi di un ideale religioso doveva corrispondere la formulazione di un ideale civile.
Vanini, come un «operaio della libertà» (mi piace definirlo così), è raffigurato ispirato nell’atto di fissare su un manoscritto il suo pensiero. È un codex costituito da fogli messi uno sull’altro, incollati e legati insieme a quaderno e tenuti insieme con la mano sinistra, che poggia su due volumina che alludono alle sue due opere più famose: l’Amphitheatrum Aeternae Providentiae divino magicum del 1615 e il De Admirandis Naturae Reginae Deaeque / Mortalium Arcanis del 1616.
Minonni, nella realizzazione di questa scultura, abbandona e supera le figurazioni ottocentesche impostate su una iconografia acquisita nel tempo, che pur hanno tramandato il volto bello, come quello dei Santi, che risplende della luce di Cristo. Anche il volto umano del Vanini di Minonni è bello ed è carico di una serena e robusta energia che, come quello del «sapiente-santo pagano», partecipa della luce che proviene dal suo interno tanto che appare trasfigurato nella bellezza, rappresentata dalla gioia e dal dovere di progredire nella sapienza. L’austera ed elegante espressione, conseguentemente, rimanda a quella dell’Epicuro lucreziano, che homo mortalis osa tendere e obsistere oculis contra, a quella di chi desidera sgombrare le menti umane dalle ombre e dalle nebbie, di chi vuole aprire la strada verso il trionfo della scienza sull’errore.
Se il bello è il mezzo per esprimere la bellezza, c’è una sorta di continuità tra il bello creato dal pensiero del martire della libertà ed il bello prodotto dall’artista Minonni, che, per garanzia, si affida a collaudati schemi che rinviano alla dignitas hominis d’impianto umanistico-rinascimentale, con gli ingredienti dell’equilibrio, dell’armonia, dell’eleganza.
Anche le vesti, pertanto, sono ricercate e belle; sono quelle di un gentiluomo che adotta un nobile modo di atteggiarsi e di contenersi. Ma, si badi, è la persona che le indossa che trasferisce nelle cose la bellezza.
Minonni, quindi, con padronanza dei mezzi espressivi, sul piano emotivo, agisce sulla sensibilità con effetti provocati e studiati, salvando le forme misurate e severe ed utilizzando punti fermi di aristocratica e devota memoria.
La penna che impugna Vanini, allora, non è una penna qualsiasi. Se si riflette bene è un ramo di palma, simbolicamente associato alla vittoria, all’ascesa, alla rinascita e all’immortalità. Perciò, Vanini appare riprodotto come in un busto reliquiario di un protomartire che impugna la palma del martirio, secondo una formula fissa nell’uso linguistico, quella appunto spesso utilizzata come attributo iconografico nell’arte cristiana per indicare coloro che sono morti per la loro fede secondo il salmo «il giusto fiorirà come palma» (Sal. 91, 13). E Vanini era un uomo giusto.
Paolo Agostino Vetrugno
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Foto in alto: D. Minonni, Busto di Giulio Cesare Vanini, bronzo e resina, 2022, 120x95x80, particolare