• giovedì , 26 Dicembre 2024

Cultura - 11 Dic 2022

“Santi, Madonne e Pupi da Presepe”, Giuseppe Gigli e la cartapesta a Lecce agli inizi del ‘900

Contributo di ricerca dello storico Gilberto Spagnolo


Spazio Aperto Salento

Letterato, folklorista, scrittore di storia locale e poeta, Giuseppe Gigli nacque a Manduria nel 1862 e qui vi morì nel 1921. Tra gli uomini più illustri di Manduria, particolarmente sensibile ai problemi e alla civiltà della sua terra alla quale dedicò innumerevoli studi, Gigli si accostò appunto “all’etnografia come a quella scienza  che permette di ampliare la conoscenza storica del popolo di Terra d’Otranto”. È autore, in particolare, dell’opera “Scrittori Manduriani” (da consultarsi come una delle fonti più ricche e autorevoli di notizie biobibliografiche degli scrittori della città messapica) e soprattutto dell’opera “Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto”, edito da Barbera a Firenze nel 1893, per la quale ebbe gli encomi reali e fu lodata dagli studiosi Pitrè e Borghi. Per quest’opera infatti (ristampata dall’editore Filo di Manduria con prefazione di Anna Merendino) divenne il punto di riferimento di viaggiatori stranieri dell’epoca, che oltre alle antiche rovine si interessarono a usi e costumi, come J. Ross (1899), M. Briggs (1913), O. Roux, e soprattutto P. Bourget con il quale ebbe frequenti rapporti.

G.B. Arnò, nella ricostruzione del suo profilo biobibliografico lo ricorda “buono di fervido ingegno e infaticabile nello studio ebbe l’animo di artista; se da giovane fu ribelle ad ogni vincolo, riuscì a trovare la sua via: il lavoro lo prese, lo appassionò lo assorbì tutto. Le numerose sue pubblicazioni, alcune delle quali tanto apprezzate, gli infiniti  articoli apparsi sui più svariati periodici e riviste, dalla Scena illustrata a Natura ed Arte, alla Nuova Antologia, alla Rassegna Pugliese, alla Rivista contemporanea, erano tutti scritti che uscivano dalla sua penna veloce, nei ritagli di tempo che la scuola gli lasciava liberi” (pur non avendo i necessari titoli di studio, fu dal ministro della Pubblica Istruzione abilitato ad insegnare Lettere nel regio Liceo Palmieri di Lecce).

Da questa “penna veloce” e da questo amore “per le cose Patrie” uscì anche il testo che riportiamo integralmente qui di seguito, dal titolo “La lavorazione della cartapesta in Lecce”, che Gigli pubblicò sull’Almanacco Italiano del 1909, una vera rarità bibliografica, lanciato all’inizio del 1896 dall’editrice Benporad di Firenze e che costituisce, sin dal suo inizio, una fonte inesauribile di informazione per la storia contemporanea. Le origini della casa editrice R. Bemporad e figlio risalgono infatti al 1840 quando Alessandro Paggi assieme al fratello Felice, aprì a Firenze, in via del Proconsolo, una libreria destinata a diventare luogo di incontro di lettori, scrittori e intellettuali liberali.

Il contributo del Gigli è estremamente importante e merita di essere maggiormente conosciuto specialmente oggi, anzitutto perché non risulta censito dalle bibliografie dei suoi scritti (come quelle di Donato Valli, del Sorrenti, dello stesso Arnò ) e in secondo luogo perché è un resoconto di prima mano, un reportage vero e proprio sullo stato e sulla lavorazione della cartapesta a Lecce agli inizi del Novecento, con il suo resoconto e il suo percorso storico, con i suoi cartapestai più illustri, sia quelli deceduti che viventi, e soprattutto con un corredo fotografico d’epoca straordinario sulle opere e sui laboratori del Guacci, del Manzo, del De Lucrezi e di Giuseppe Malecore.

Gilberto Spagnolo
© Riproduzione riservata

 

LA LAVORAZIONE DELLA CARTAPESTA IN LECCE

Il viaggiatore che visiti per la prima volta Lecce, la caratteristica città pugliese che Paul Bourget, volle sua “Sensations d’Italie”, appellò col grazioso epiteto “di paradis du rococo”, non può non restare meravigliato nell’osservare i numerosi laboratori di statue in cartapesta, che frequentemente s’incontrano lungo le sue vie tortuose.

Innanzi a questi laboratori, che spesso sono piccole e modeste botteghe, lungo i muri delle stesse vie, talvolta in recondite piazzette, un popolo di statue, quasi sempre di soggetto sacro o biblico, sta ad asciugare tranquillamente ai raggi del caldo sole me­ridionale, senza dare alcuna molestia ai pas­santi, i quali, per la lunga consuetudine che ne hanno, non mostrano neppure di accor­gersi delle belle Madonne e dei Santi, che in un non lontano giorno dovranno richiamare da cento e cento altari gli sguardi e i devoti pensieri dei fedeli di buona parte del mondo.

Quest’ultima affermazione non è per nulla esagerata, come a prima vista si potrebbe credere; le statue sacre leccesi non sono ri­cercate soltanto in Italia, e soprattutto nelle province meridionali, né varcano soltanto le Alpi verso la Spagna e la Francia, ma ornano moltissime chiese d’America, da dove gli emi­granti di Basilicata, di Puglia e di Calabria stabiliti in New York, in San Paulo, in Bue­nos Aires ne fanno ogni anno larga e con­tinua richiesta.

Al considerevole sviluppo preso specialmente in questi ultimi trent’anni, si deve se questa della lavorazione della cartapesta, che fu considerata un po’ arbitrariamente come un’arte vera e propria, quantunque a sé, sia andata diventando un’industria carat­teristica e anche assai rimuneratrice. Come s’è accennato più sopra, numerosi ne sono i laboratori, ove trovano lavoro e occupazione molti e molti “scultori” e “artisti”, come dicono in Lecce. In verità, e perché non si prenda per uno scherzoso paradosso, si può dire che in Lecce l’arte della cartapesta sia stata socializzata, e che gli scultori leccesi pensino e formino in comune le loro statue.

* * *

La lavorazione della cartapesta leccese non è di data recente. Qualche scrittore locale ha scoperto che nella parrocchiale di Morigino, piccolo villaggio della stessa provincia, ed in alcune chiese di Lecce, esistono dei lavori che attestano la notevole vitalità a cui era pervenuta la plastica cartacea sin dalla prima metà del seicento.

Le vere origini di essa si debbono però rintracciare nel secolo XVIII, per opera principale di un “Mastro Pietro dei Cristi e d’un Mastr’Angelo De Agostinis”, entrambi cartapestai assai modesti, che soprattutto fabbricavano – e il nomignolo del primo lo dice chiaramente – Crocefissi di tutte le dimensioni e qualche statua sacra. Uno sviluppo vero si ebbe verso la metà dello scorso secolo, quando comparve Antonio Maccagnani, che può chiamarsi il caposcuola della seconda e più artistica maniera de’ cartapestai leccesi.

Nato nel 1809, studiò il disegno e la pittura con un tal Tondi, anch’egli leccese e mediocre pittore: poi si dette allo studio della plastica e apprese i primi rudimenti della lavorazione della cartapesta del ricordato De Agostinis.

Altro discepolo del Tondi, e anch’egli buon cartapestaio, fu Pasquale Letizia, compagno di lavoro del Maccagnani; essi produssero moltissimi lavori e lasciarono una vera scuola di modellatura in carta, alla quale appartiene un artista ancor vivo e vegeto, Achille De Lucrezi, che oggi ha un laboratorio de’ più accreditati. Nato da modesti genitori, il De Lucrezi ebbe una curiosa giovinezza. Cominciò ad esercitare il mestiere del barbiere, e , nelle ore d’ozio, si mise a modellare in creta pastori e santi da presepe.

Se è lecito aprire una parentesi, bisogna ricordare che in Lecce fu ed è ancor fiorente l’industria dei “pupi da presepe”, modellati con molta grazia e per lo più dai barbieri più poveri, ché gli altri, quelli che hanno raggranellato un po’ di denaro, hanno un elegante “salon”, con annesso negozio di cappelli, guanti e profumerie.

Il De Lucrezi, dunque, mostrando spiccate tendenze al disegno e alla plastica, andò a studiare con pittori e modellatori che avevano qualche nome in patria, come il Magliola e il Guerra. Poi si recò a Roma, e mentre nell’eterna città continuava i suoi studi, apprese l’arte della scherma e del ballo. Chi scrive lo ricorda ancora suo maestro di ballo nel Convitto Nazionale di Lecce, annesso a quel regio Liceo Ginnasio Palmieri, e non può dimenticarne la bontà e la gentilezza. Ritiratosi in patria, aprì un laboratorio di lavorazione della cartapesta, che ancor oggi dirige con grande amore e somma competenza. I suoi Santi e le sue Madonne hanno una grande dolcezza unita a mistica grazia, e son assai ricercati. Tra i suoi migliori discepoli son da ricordare Andrea De Pascalis e Giuseppe Manzo.

Il De Pascalis, morto giovanissimo alcuni anni or sono, per le qualità dell’ingegno e per le attitudini, si sarebbe spinto molto avanti. Egli dette alla cartapesta un sentimento mondano che gli accrebbe la rinomanza e che lo rende ancora ricordato. A Parigi aveva una rappresentanza e una esposizione delle sue statue in “Rue Du Bac”.  Il Manzo lavora sempre con grande successo. Se si potessero elencare i diplomi, le medaglie e i brevetti da lui ottenuti in quasi tutte le esposizioni di questi ultimi venti anni, non basterebbero parecchie colonne “dell’Almanacco Italiano” a contenerne la serie.

Ma Lecce, come s’è detto, è piena di laboratori di cartapesta. Oggi hanno nome e valore Giuseppe Malecore e Raffaele Caretta, e da poco s’è costituita una “Unione Cooperativa Statuaria” che tutt’insieme producono parecchie centinaia di belle statue all’anno. Fra gli ultimi venuti – e di altri molti sono costretto a tacere – è da ricordare Luigi Guacci che studiò scultura all’Accademia di Roma, e che produsse parecchi e eccellenti lavori in bronzo e in marmo. Giovine di molto talento, ritiratosi da parecchi anni nella sua città natia, rivolse l’attenzione a quest’arte tutta paesana e tradizionale, e vi si dedicò con entusiasmo, aprendo un grande laboratorio. Egli può chiamarsi un vero riformatore giacché con le statue di soggetto sacro ne produce molte di soggetto profano le quali ultime non entravano prima di lui nella lavorazione dei cartapestai leccesi. I lavori del Guacci hanno una grande espressione di mistica verità e passano vittoriosi i confini d’Italia.

* * *

Non è senza interesse far conoscere ai lettori il processo di cui è sottoposta la carta prima di diventare materia di statue.

Ogni laboratorio ha la sua larga provvista di carta d’ogni specie, vecchi giornali, carta di rifiuto, ritagli d’ogni forma e colore che per molti giorni la lasciano sott’acqua in grandi e apposite vasche. Quando tutta questa materia è ben Macerata è passata in una macchina impastatrice che la riduce quasi una poltiglia malleabile come l’argilla e che rende molto compatta con l’aggiunta di una certa dose di amido, cui si mescolano materie antisettiche per renderla specialmente refrattaria ai tarli.

Comincia da questo punto la vera lavorazione. Su di un dado o base in legno, dal quale si leva una specie di alto cuneo, si arma in stoppia il manichino della statua, che è rivestita con uno strato di cartapesta. Vi si fissano testa, mani e piedi per lo più usciti da apposite forme, talvolta abbozzati separatamente; segue quindi la “vestizione”, che si fa con larghe strisce di carta macerata, che si applicano lungo il corpo in modo da formare “l’andatura” delle pieghe, secondo il concetto del modellatore. Quando il lavoro è ben asciutto con ferri roventi si rimettono a posto le pieghe irrigidite e contorte per effetto dell’asciugamento, e si dà forma concreta alla testa, alle mani e ai piedi. Questa operazione è di maggiore importanza, giacché è quella che dà espressione e forma al soggetto: si può dire che ciò ch’è la stecca per lo scultore, è il ferro rovente per il cartapestaio. Segue “l’ingessatura”  altra operazione che completa con uno strato di gesso, sciolto in acqua e colla, questa lavorazione, e che ha lo scopo di renderla adatta al “ricaccio” che consiste in un ultimo lavoro di stecche e di ferri taglienti, coi quali si curano e si perfezionano quei dettagli che il gesso aveva alquanto confusi o alterati. La “dipintura” delle statue, fatta prima con un sol colore e colla, poi con colori ad olio con i quali il viso, i capelli, le mani, i piedi, le vesti prendono aspetto proprio, finalmente con la doratura della base dei simboli religiosi, è l’ultima fatica che richiede la statua, le cui tinte sono rese vive e morbide da una “inceratura” che vi si pratica. Dopo di che è lasciata per qualche tempo in una “stufa” leggermente riscaldata, e n’è pronta ad essere incassata e spedita.

* * *

L’arte della cartapesta leccese attraversa oggi un lieto periodo di successi, che la rendono anche economicamente fiorente. In Lecce sono centinaia le famiglie operose che v’attingono sicuro benessere. Certo con essa si supplisce, e con notevole differenza e vantaggio di prezzo, alla produzione delle statue in metallo o in legno, che un tempo ornavano comunemente le chiese, e che per lo più uscivano da officine di Venezia e di Siena. L’abbiamo chiamata “arte”, e sia pure.

L’interesse che essa ha è soprattutto questo: che, è nata in Lecce, pare non voglia varcarne i confini, pare voglia restare nel leccese. Un esimio critico d’arte, l’illustre architetto Camillo Bòito, a proposito dell’Esposizione d’Arte Sacra tenutasi a Torino nel 1808, così scriveva de’ lavori in cartapesta mandati dai laboratori leccesi:“Può dirsi arte industriale, per esempio quella della cartapesta di Lecce, perché le Vergini, i Santi, gli Angeli i Crocifissi di cartapesta partono dalle numerose botteghe della gentile città di Puglia per viaggiare sino al settentrione d’Italia entrando nelle nicchie de’ presbiteri e adagiandosi sugli altari perfino delle nostre Alpi nevose; ed è un’industria dove un certo spirito di bellezza ed una misurata espressione non mancano”. Parole belle e buone, come si vede, e che non inorgogliscono ma incoraggiano a un sempre più alacre e proficuo lavoro gli artisti leccesi. Chi non sia vissuto qualche tempo in quella città non può immaginare di qual vero impeto ed entusiasmo artistico siano animati tanti e tanti modesti per quanto valorosi artisti. Io ne ho nominati, in queste brevi note, otto o dieci, ma essi sono legione, che cresce ogni giorno. Alla vecchia arte tradizionale, i giovani, e tra questi il Guacci, che s’è ricordato più sopra, vanno apportando uno spirito nuovo di grazia e di perfezione. Pare che in Lecce ove tanta gentilezza di costumi e di lingua, quest’arte sia come un prodotto naturale della terra, corrispondente alle tendenze più fini  e più sottili de’ suoi abitanti. E pare davvero che un magnifico privilegio crei qui gli artisti e specialmente gli scultori tra i quali ultimi, basta ricordare Antonio Bortone ed Eugenio Maccagnani leccesi noti ed onorati in tutta Italia e fuori.

Giuseppe Gigli

 

Foto in alto e sotto: “Almanacco Italiano” 1909, illustrazioni originali dell’articolo di Giuseppe Gigli

 

 

Riferimenti Bibliografici essenziali

VALLI D., (a cura di), Giuseppe Gigli e documenti vari di cultura, Milella, Lecce 1982.
ARNÒ G.B., Manduria e Manduriani, edizione Anastatica, Antonio Marzo Editore, Manduria 1983.
SORRENTI P., Repertorio bibliografico degli scrittori Pugliesi e contemporanei, Arti Grafiche Savarese, Bari 1976.
PIANTONI C., Cronaca di una borghesia in ascesa. I primi quarant’anni dell’Almanacco Italiano, in “Charta”, anno VI, n. 26, gennaio-febbraio 1997, PP. 26-29.
GIGLI G., La lavorazione della cartapesta in Lecce, in “Almanacco Italiano” anno XIV, R. Bemporad e Figlio, Firenze 1909, PP. 540-552.
GIGLI G., Superstizioni, Pregiudizi e Tradizioni in Terra d’Otranto, riedizione dell’opera del 1893, Filo Editore, Manduria 1998, con prefazione di Anna Merendino.